I laureati sono troppo pochi laureati, le donne fanno meno carriera degli uomini, chi viene da un ceto sociale svantaggiato ha meno possibilità di istruirsi. È questo il triste e desolante quadro che, anche quest’anno, l’Ocse – Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – ci restituisce sul nostro Paese. Si tratta di “Education at a glance 2018”, ed è la dettagliatissima fotografia che, annualmente, l’ente internazionale pubblica sui Paesi di tutto il mondo economicamente più evoluti.
Nonostante i lievi miglioramenti rispetto agli scorsi anni, l’Italia ne esce con le ossa rotte. E non è una novità per un Paese il cui biglietto da visita è un sistema formativo scolastico e universitario che – rispetto alla media dei Paesi a confronto – fa acqua da tutte le parti. Il gap più evidente si registra, a monte, nel livello di istruzione. Mentre le nazioni più avanzate economicamente dimostrano di aver compreso che occorre puntare sull’accrescimento del livello d’istruzione del singolo, il Belpaese porta a casa dei risultati pessimi: solo il 4% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha conseguito una laurea. La media dei Paesi Ocse si attesta intorno al 17%.
Una delle grandi cause di questo bilancio risiederebbe nei finanziamenti. Rispetto agli altri Paesi, l’Italia investe poco nell’istruzione dei cittadini. Frequentare l’università oggi non è alla portata di tutti: tra tasse elevate, affitti alle stelle e spese per i trasporti, la vita di uno studente – soprattutto se fuorisede – è un labirinto irto di ostacoli. Sono pochissimi ancora quelli che ricevono un aiuto economico come borse di studio o altro: solo 20 su 100 possono contare su un supporto economico. Una bella differenza con altri Paesi in cui, al contrario, è possibile a studiare a costi irrisori (in Francia, ad esempio) o a costo zero (in Finlandia o in Svezia).
A innalzare il livello di istruzione in Italia ci pensano le donne. In un Paese dove ci sono pochissimi laureati, il 55% di questi è rappresentato dalle donne che, già tra i banchi scuola, registrano risultati migliori degli uomini. Bocciati, ripetenti e coloro che interrompono gli studi sono per la maggior parte uomini. Una magra consolazione, giacché quest’ottimo rendimento resta relegato ai libri di studio: buona parte delle donne laureate non lavora né tantomeno cerca lavoro, un problema culturale e sociale che, generando il 17% di laureate inattive, diventa un danno sia per le donne stesse sia per il PIL del Paese.
Tuttavia, anche laddove, le donne scelgano di lavorare, le difficoltà sono dietro l’angolo. I divari di genere affliggono ogni ambito lavorativo: dalla ricerca di un lavoro ai colloqui, dalle assunzioni alle disparità salariali che sono ancora marcate ed evidenti. A parità di livello di istruzione, la percentuale di uomini che lavora è più alta rispetto a quella delle donne e gli stipendi dei primi sono sensibilmente più alti in tutti i settori d’impiego.
Il Belpaese però non lascia a bocca asciutta nessuno. Accanto alle quotidiane disparità di genere, ce ne sono altre che non guardano affatto al sesso ma che colpiscono indistintamente tutti. Tutti coloro che provengono da un ceto sociale svantaggiato, ça va sans dire. Nonostante un generale innalzamento del livello di istruzione con un livello di scolarizzazione superiore al 90% tra i 5 e i 14 anni, sono ancora molti le cui possibilità sono dimezzate o persino azzerate nel caso di genitori poco istruiti.
Dai dati pubblicati dall’Ocse, emerge infatti che, nella maggior parte dei casi (90%), i figli dei laureati hanno una laurea sicura in tasca, mentre i figli di coloro che hanno un livello d’istruzione più basso più difficilmente riescono a conquistare l’alloro (uno su dieci). Un dato che non riguarda solo l’università ma che comincia già a partire dalle scuole elementare fino ai livelli di istruzione superiori dove completare un percorso di studi è direttamente collegato al titolo di studio del genitore. Un dato che, inevitabilmente, si riflette sul mondo del lavoro dove le possibilità di trovare un impiego si riducono e i salari sono più bassi.
Non sorprenderà apprendere, infine, che la situazione di coloro che provengono da un ceto sociale basso presenta numerose somiglianze con quella degli immigrati. Si tratta di un elemento comune alla maggior parte dei Paesi dell’Ocse, ma è tra i più alti, in Italia, il divario tra gli autoctoni e gli stranieri in ambito educativo: se le difficoltà nel frequentare scuole e programmi di educazione è già elevata per i giovani, tale divario diventa insormontabili per gli adulti che, tra tutti, hanno maggiori difficoltà di integrazione.
Ultimo dato rilevato dall’Ocse, per completare lo scoraggiante quadro italiano, è quello che riguarda i Neet, termine ormai entrato nell’uso per indicare tutti quei giovani che non studiano e non lavorano. Nel nostro Paese, la percentuale di giovani tra i 20 e i 24 si aggira intorno al 30% (con una percentuale più alta nel Sud Italia) rispetto a una media Ocse del 16%.