Categorie: Cultura e società

Obbligati all’obiezione di coscienza: la denuncia di una studentessa e associazioni

“Se la Sanità del futuro fosse costruita da me e dalle mie colleghe, la percentuale di ginecologi obiettori di coscienza sarebbe pressoché 0”, così si legge nella lettera aperta pubblicata da Asia, studentessa di Medicina e Chirurgia al quarto anno, sulla pagina Facebook Rete della Conoscenza. Invece, la realtà è un’altra e racconta di decine di studenti vincolati a scegliere l’obiezione di coscienza nelle facoltà e negli ospedali dove si insegnano corsi di ostetricia e ginecologia.

La denuncia viene da diverse associazioni, tra cui ‘Amica‘ (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto), l’Associazione Luca Coscioni e Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti), che congiuntamente alla Camera dei Deputati hanno parlato del caso particolare del Campus Biomedico dell’Opus Dei di Roma, dove gli studenti sono obbligati a scegliere l’obiezione di coscienza per poter frequentare i corsi, così come si legge negli articoli 10 e 11 della Carta delle Finalità dell’istituto, dove l’interruzione volontaria della gravidanza viene definita come un crimine.

Si tratta di un fatto ancor più grave, in quanto l’Opus Dei è sì una struttura privata, ma è anche convenzionata dal Miur e vi si accede dopo aver superato un concorso pubblico, sulla base di una graduatoria nazionale. Senza, tuttavia, poter imparare come effettuare una procedura di interruzione di gravidanza, contrariamente alla legge 194. La denuncia delle associazioni è quindi accompagnata da una specifica richiesta: revocare l’accreditamento della scuola in ostetricia e ginecologia del Campus a meno che non venga assicurato agli specializzandi un percorso completo, che comprenda contraccezione e interruzione volontaria della gravidanza, e “se non si terrà conto del principio di laicità e di quello di appropriatezza”, come scrivono le associazioni.

Obbligo obiezione di coscienza: la lettera della studentessa

Di seguito, infine, si pubblica la lettera di Asia, come riportata sulla pagina Facebook Rete della Conoscenza.

“Sono una studentessa di Medicina e Chirurgia al quarto anno. Negli ultimi giorni ho letto sui giornali la denuncia di alcune associazioni e di oltre 50 ginecologi e dirigenti sanitari che hanno segnalato il “vincolo di obiezione di coscienza” che il Campus Biomedico, un ospedale universitario (privato ma convenzionato con il MIUR), impone ai suoi studenti e medici, arrivando a definire nel suo statuto l’aborto come un crimine.

Che queste siano le “regole” delle università e degli ospedali privati del nostro Paese, è storia vecchia, non stupisce più. Così come è ormai un dato di fatto la quantità al 70% di ginecologi obiettori di coscienza negli ospedali pubblici: sappiamo per certo che ogni docente di ginecologia che incontriamo (a meno che non espliciti il contrario) sarà parte di quelle statistiche che in Italia bloccano ancora l’accesso al diritto all’interruzione di gravidanza.

Le attuali generazioni di studenti di medicina e specializzandi, i miei coetanei, sono nate a conclusione di una lunghissima stagione di lotte per i diritti delle donne. Siamo cresciute in un mondo che ci diceva quanto fossimo padrone del nostro corpo, abbiamo tutte, bene o male, coscienza della possibilità di scegliere pienamente sulle nostre vite e sul nostro futuro. Se la Sanità del futuro fosse costruita da me e dalle mie colleghe, la percentuale di ginecologi obiettori di coscienza sarebbe pressoché 0. E invece, l’obiezione di struttura è realtà in tanti ospedali del nostro paese; molti tra ginecologi e ginecologhe preferiscono un’obiezione di comodo che garantisce la possibilità di fare carriera e di diversificare il proprio lavoro piuttosto che garantire una scelta libera a tante donne. Ci guardiamo negli occhi e ci chiediamo: ma com’è possibile che nel nostro ospedale universitario ci siano solo 2 ginecologi che applicano la legge 194? Dove “finiamo”, letteralmente, dopo la laurea, dopo la specializzazione?

Una stortura, una contraddizione enorme, che nasce e cresce nelle nostre stesse aule di lezione. Il percorso di studi di Medicina è una specie di guerra nel costante tentativo di non cedere all’alienazione totale, mantenere quel contatto con la realtà che ci permetta di rimanere umani. Spero che i tanti, validi docenti che hanno in carico la nostra formazione non si risentano, ma ad oggi la verità è che il senso del nostro studio lo possiamo restituire solo grazie a ciò che c’è “fuori”: alle associazioni e ai movimenti che frequentiamo, scambiandoci esperienze da un continente all’altro sui social, leggendo di nuovi modi di vedere l’essere umano.

Pensate alle grandi conquiste sull’autodeterminazione dei corpi che cerchiamo di portare avanti con le battaglie culturali, sulla sessualità e il piacere, sull’identità di genere… Credete che abbiano spazio nei nostri programmi? Dietro le cattedre, la maggior parte delle volte, ci sono sedute quelle persone che nelle piazze noi stesse contestiamo. Io non so che destino toccherà alla generazione di medici, ma anche di ostetriche, infermieri, professionisti sanitari, che si prepara a reggere le comunità del futuro. Perché i compromessi a cui ci chiedono di scendere, tra la carriera e i nostri ideali, sono tanti. Perché ci prendono per isolamento. Perché noi un futuro più libero lo sogniamo davvero, all’autodeterminazione, alla possibilità di creare una nuova cultura, di praticarla e di insegnarla a nostra volta, ci crediamo davvero: ma c’è un blocco di potere che ha ancora in mano il nostro destino.

E quindi arriviamo stanche, e ci diciamo che non fa niente, non è così grave se nel programma di ginecologia di aborto non si parla, se il professore di bioetica lascia intendere altro con quel “la vita è sacra”, che in fondo sono solo pochi CFU e non è il caso di fare tante storie. Che siamo più forti noi. Che nessuno dei nostri colleghi lo prenderà come la normalità. Che arriverà il momento che potremo decidere noi. E invece certo che è grave. E invece è giusto che tutti sappiano, è giusto ripeterlo ogni volta che possiamo, è giusto che non sia mai la normalità.

Soprattutto, è giusto non essere sole a lottare.

Asia, studentessa di Medicina e Chirurgia”.

Questo post è stato pubblicato il 8 Febbraio 2020

Redazione

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