Stava svolgendo ricerche per la sua tesi di laurea in un’università europea, si sentiva al sicuro, poi la sconvolgente scoperta, a Padova, dopo dei controlli del sangue. Una studentessa italiana ha contratto l’HIV mentre manipolava alcuni virus “difettivi”, quindi in teoria che non replicabili. I fatti sono avvenuti sette anni fa, ma la ragazza ha trovato solo nei giorni scorsi la forza di raccontarlo al Corriere.
L’episodio, racconta, le ha rovinato la vita, ma dopo anni di patimenti è arrivata la voglia di riscossa, con la richiesta di risarcimento milionario a due università, una italiana e una straniera. Ora la donna, assistita dall’avvocato Antonio Serpetti, del foro di Milano, si è sostanzialmente costruita una vita “parallela”, nascondendo la sua condizione alla maggior parte delle persone con cui entra in contatto. Stando alla sequenza genetica della perizia di parte, il virus che l’ha colpita non circola tra la popolazione, ma corrisponde a quelli costruiti in laboratorio. Quindi il contagio potrebbe essere avvenuto proprio durante l’attività di ricerca.
La vicenda giudiziaria è nelle fasi preliminari, anche se i giudici hanno già fissato la prima udienza; per l’avvocato Serpetti l’Hiv da laboratorio “è curabile ma con più difficoltà, perché i farmaci disponibili sono stati sviluppati sui virus circolanti”.
Dopo la scoperta la donna ha dovuto affrontare un vero e proprio calvario. Prima la rottura della relazione col fidanzato, poi la lotta contro i pregiudizi e contro tutti quelli che non credevano che il contagio fosse avvenuto in laboratorio. Il caso della studentessa italiana potrebbe essere, secondo una ricerca di Boston, il primo di contagio con un virus generato in laboratorio. Un’ipotesi che metterebbe in allarme tutta la ricerca scientifica, se confermata.
Questo post è stato pubblicato il 18 Dicembre 2019
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