Se crediamo che un’azione o una sostanza abbiano un effetto positivo sul nostro organismo, molto probabilmente staremo meglio. È il cosiddetto effetto placebo, che consiste in un beneficio fisico o psicologico derivante da terapia prive di principi attivi specifici, ma che sono amministrate come se avessero proprietà curative. Questo avviene attraverso un processo di aspettativa, basato su fiducia, credenza e apprendimento, in cui la mente mette in atto una serie di meccanismi che permettono un reale beneficio sull’organismo. L’effetto placebo è stato ampiamente studiato nell’ambito del dolore e negli stati di stress. Meno noto è il suo funzionamento in altri sistemi, come quello motorio. Una risposta in questo senso arriva dalla ricerca “Placebo-Induced Changes in Excitatory and Inhibitory Corticospinal Circuits during Motor Performance”, pubblicata sul Journal of Neuroscience a firma di un tema dell’università di Verona. Gli scienziati Mirta Fiorio e Michele Tinazzi del dipartimento di Neurologia, Biomedicina e Movimento hanno indagato, per la prima volta, come si attiva sotto “effetto placebo”, il sistema motorio umano per migliorare la prestazione motoria. Lo studio, ha ricevuto il premio Susanne Klein-Vogelbach 2015 per la ricerca sul movimento umano.
“La ricerca – afferma Mirta Fiorio, docente di Psicobiologia e Psicologia fisiologica dell’università di Verona – risponde all’esigenza di colmare un vuoto nel panorama della letteratura scientifica: nessuno ha mai indagato come, in un contesto di placebo, si attivi il sistema motorio al fine di migliorare la prestazione fisica. È noto che ciclisti e corridori, ben allenati, che pensano di avere ingerito caffeina, quando in realtà hanno assunto una sostanza placebo, aumentano la loro performance; noi siamo stati i primi ad indagare come questo possa accadere a livello del sistema motorio. La novità dello studio è quello di evidenziare gli effetti della procedura placebo sull’eccitabilità del sistema corticospinale”. Utilizzando una tecnica di stimolazione cerebrale non invasiva è stata misurata in volontari sani la funzione del sistema motorio. “Valutando gli indici specifici di attivazione dell’area motoria del cervello – spiega Michele Tinazzi, docente di Neurologia dell’ateneo veronese – si è visto in modo consistente come le persone, che credevano che un trattamento in realtà inerte avrebbe aumentato la loro forza, mostravano anche una maggiore attivazione del sistema motorio”. “Questa ricerca è innovativa e rilevante per le scienze motorie – dichiara Federico Schena, coordinatore della sezione di Scienze motorie del dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento – e contribuisce ad ampliare, in un contesto dinamico che spazia dalla ricerca di base all’applicazione, le conoscenze sui fattori cognitivi che possono migliorare la prestazione anche in ambito sportivo”. Per la realizzazione della ricerca è stata fondamentale la collaborazione con Emadi Andani, ingegnere biomedico all’Università di Isfahan (Iran), che per quattro anni ha lavorato con il gruppo di ricerca. Allo studio hanno, inoltre, contribuito Angela Marotta, post-doc dell’università di Verona e Joseph Classen dell’università di Leipzig (Germania).