Offesa, usata impropriamente e abusata: la lingua italiana, strumento di comunicazione alla portata di chiunque, ne ha visto di tutti i tipi nel corso dei secoli. Ancora oggi, capita a tutti di compiere degli strafalcioni linguistici, senza rendersene conto. Ma, giusto la settimana scorsa, è stata celebrata la lingua italiana…
APOSTROFO. Tra i segni più maltrattati della lingua italiana vi è sicuramente l’apostrofo. Solitamente l’apostrofo viene utilizzato nei casi di elisione, come quando lo si pone tra l’articolo determinativo e la parola che inizia per vocale. La situazione cambia, ad esempio, per la parola “poco”, che subisce il troncamento e si trasforma in “po’” con apostrofo e non con accento. Per alcuni, i problemi sorgono quando si utilizza l’articolo indeterminativo, ma la regola è semplice: se si tratta di un nome maschile non va utilizzato l’apostrofo, se si tratta di un nome femminile sì, perché si tratta di elisione. Negli altri casi di troncamento, al maschile, non si utilizza l’apostrofo, al femminile sì perché è elisione. Ecco degli esempi:
QUAL É. Questa è una delle forme più discusse e, per quanto si continui a ripetere nei secoli dei secoli che non si utilizza l’apostrofo, molti in realtà continuano a sbagliare e a introdurlo.
IL CONGIUNTIVO. Il congiuntivo viene continuamente ignorato, sembrerebbe quasi essere il male del secolo, tanto che alcuni docenti si chiedono dove vada. Non si sa di preciso se sia vivo o morto, ma di sicuro è in rianimazione, dato che spesso si crede che il congiuntivo possa essere semplicemente sostituito da un presente. «L’importante è che tu sei contento» non è equivalente a dire «L’importante è che tu sia contento». Questo è sicuramente una tendenza della lingua italiana che si sta diffondendo, indisturbata, anche tra gli universitari. Un piccolo consiglio: quando utilizziamo la parola “che” (congiunzione, non pronome relativo), fermiamoci un attimo a pensare e valutiamo se utilizzare o meno il congiuntivo.
ED e AD. Quella simpaticissima lettera “d”, che si aggiunge alla congiunzione “e” o alla preposizione “a”, si chiama eufonica. Ha lo scopo di rendere più piacevole il suono delle parole, ma non è un optional. Dopo tanti dibattiti, si è arrivati alla conclusione che non va inserita davanti a tutte la parole che iniziano per vocale, ma solo quando vi sono parole che iniziano per la stessa vocale. Esempi:
LA PUNTEGGIATURA. Il secondo male del secolo, dopo il congiuntivo, è soprattutto la punteggiatura. Chiunque può avere problemi di punteggiatura, ma il suo uso non è soggettivo. Chiunque abbia la tendenza a scrivere periodi molti lunghi dovrebbe rileggere ciò che scrive, perché troverà sempre lo spazio per introdurre delle virgole. Ma soprattutto: «Laura, la figlia dell’amica di mamma, è una brava ragazza» sarà sicuramente più comprensibile di «Laura la figlia dell’amica di mamma è una brava ragazza». Quindi quando utilizziamo apposizioni, introduciamo periodi temporali o altro, in un discorso ampio, sarebbe bene “abusare delle virgole”. Invece appare morto e sepolto il punto e virgola, di cui molti non hanno mai compreso la funzione. Il punto e virgola è utilissimo per gli elenchi, ma all’interno di un discorso ancora di più: serve ad iniziare un nuovo periodo, che ha bisogno di un proprio spazio ma che sia collegato a quello precedente, per cui non c’è bisogno di ricorrere al punto fermo. Facciamo anche attenzione a non abusare dei punti esclamativi, ricorrenti negli sms, ma adatti a poche situazioni formali.
GLI ACCENTI. Gli accenti non sono esclusivamente utilizzati per parole come “sarà”, “pietà” e “sanità”. Gli accenti vengono anche utilizzati per distinguere alcune parole da altre: ad esempio, la terza persona singolare del verbo “dare”, che sarebbe “dà”, va segnalata con un accento per distinguerla dalla proposizione semplice “da”. E ancora, la risposta affermativa «Sì, lo voglio» va distinta dal semplice pronome «Giulia si lava». La lingua è però molto flessibile, ad esempio, si potrebbe distinguere anche “fa”, terza persona singolare del verbo “fare”, dalla nota musicale “fa, ma ciò non avviene, poiché la nota musicale viene utilizzata solo in un numero di discorsi limitati, contingenti all’ambito musicale.
HA ed È. Questo è un errore tipicamente compiuto dai siciliani nel linguaggio colloquiale, ma abbastanza grave. Forse a tutti i siciliani sarà capitato, almeno una volta nella vita, di sentire un proprio collega esclamare “Ha da tanto tempo che non apro il libro”. Probabilmente il collega sarà stato bocciato agli esami e non starà bene, ma vi assicuro che la sua lingua italiana starà ancor peggio. Si dice solo ed esclusivamente “È da tempo che non apro il libro”!
CHIAMARE. Anche questo è un tipico errore siciliano. Il verbo chiamare è utilizzato come un transitivo. Se vi capita di dire “Ho chiamato a Carmela”, sappiate che resta tra noi e si può chiudere un occhio, ma se doveste scrivere in un test “Ho chiamato a Carmela”, la preposizione verrebbe cerchiata infinite volte. La forma corretta è “Ho chiamato Carmela”, il verbo regge il complemento oggetto e non quello di termine.
GLI AVVERBI. Ci sono le borse, i bracciali, gli orecchini e, in mezzo a tutti questi accessori, anche gli avverbi. L’avverbio non è di sicuro la parola più importante all’interno di un periodo, ma conserva il suo significato. Tralasciando il consumatissimo “praticamente”, utilizzato in qualsiasi frase degli studenti, vi sono tantissimi altri avverbi che possono essere utilizzati impropriamente. Ad esempio, “possibilmente” e “probabilmente” non hanno lo stesso significato. Per non sbagliare, basterà tradurre l’avverbio: in questo caso si deve pensare a “È possibile” o “È probabile”.
Questo post è stato pubblicato il 6 Novembre 2014
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