Sotto gli Stati Uniti c’è la più grande riserva di acqua della Terra, intrappolata nelle rocce del mantello terrestre a circa 650 chilometri di profondità. Lo studio, pubblicato su Science, è opera di un gruppo di ricerca americano guidato da Brandon Schmandt dell’Università del Nuovo Messico e da Steven Jacobsen dell’Università Northwestern, nell’Illinois.
Da tempo si cerca di calcolare la quantità di acqua che viene scambiata tra i serbatoi sotterranei e la superficie e per avere una risposta i ricercatori hanno ricostruito la mappa del sottosuolo utilizzando i dati di 2.000 sensori che servono per il monitoraggio dei terremoti. Quindi hanno simulato in laboratorio gli effetti sulle rocce delle pressioni elevatissime che entrano in azione nel sottosuolo, a grandi profondità. Combinando i dati è stato possibile individuare e localizzare le grandi sacche di magma ricche di acqua in corrispondenza degli Stati Uniti. I ricercatori sostengono che se solo l’1% del peso del mantello di rocce è acqua, questa sarebbe pari a tre volte la quantità di acqua presente nei nostri oceani.
“I processi geologici che avvengono sulla superficie, come terremoti o eruzioni vulcaniche, sono espressione di ciò che sta accadendo all’interno del pianeta”, ha detto Jacobsen. “Penso che stiamo finalmente vedendo un ciclo intero dell’acqua e questo contribuirà a spiegare la grande quantità di acqua liquida sulla superficie della Terra. Ora però siamo alla ricerca dell’acqua in profondità”. Quest’acqua non è in una forma a noi familiare: non è liquida, né ghiaccio o vapore. È una quarta forma perché si tratta di acqua che, sotto l’alta pressione causata dal peso di centinaia di chilometri di roccia e temperature superiori a 1.100 gradi, intrappolano le molecole d’acqua nella struttura cristallina di un minerale. “Lo studio suggerisce la presenza di un imponente serbatoio di acqua profonda nella zona di transizione del mantello, tra 410 e 660 chilometri di profondità all’interno della Terra” commenta il sismologo Alessandro Amato, dell’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia (Ingv). “Un risultato – aggiunge – che apre nuove strade per comprendere i meccanismi evolutivi del nostro pianeta. I ricercatori hanno adottato un approccio multidisciplinare che comprende l’analisi dei dati delle reti sismiche, esperimenti in laboratorio ad elevatissime pressioni, e modelli numerici: un approccio vincente per la geologia moderna”. (ANSA)